sabato 12 gennaio 2013

Moni Ovadia ed "Il registro dei peccati" al teatro Bellini


                                                                                               
Moni Ovadia

di Giuseppe Giorgio
E’ utilizzando il teatro come un grande strumento per trasmettere valori e tradizioni, “ovvero- come lui stesso dichiara- come un mezzo per raccontare la celebrazione della vita” che da stasera fino a domenica al Teatro Bellini, Moni Ovadia, porta in scena “Il registro dei peccati” ovvero “Rapsodia lieve per racconti, melopee, narrazioni e storielle”,lo spettacolo da lui stesso scritto, diretto e interpretato  dedicato al racconto del mondo e della cultura yiddish, la stessa che nata dall’emarginazione degli ebrei sparsi per l’Europa e nel rappresentare, secondo alcuni, la differenza che fa essere speciale l’ebreo rispetto ai cittadini delle varie nazioni, riesce a tramutarsi persino in umorismo come anche accaduto con  Hershel da Ostropol, figura di primo piano nell’umorismo ebraico.  Ed è proprio  partendo da queste premesse che oggi se c’è un artista in grado di essere chiaro nelle spiegazioni, leggero nell’ironia, profondo nell’analizzare le situazioni, divertente nella narrazione e capace di dipingere i suoi spettacoli di un’aurea spirituale, questi è sicuramente Moni Ovadia. Nel suo spettacolo prodotto dalla Promo Music, il riferimento è lo chassidismo, una corrente ebraica nata verso metà ‘800, che esaltava la vivacità del principio spirituale e religioso espresso nella gioia e nella santità delle danze e dei canti, e lo studio metodico e rigoroso della sacra scrittura. Ponendosi dinanzi agli spettatori come un racconto “Il registro dei peccati” consente a  Moni Ovadia, che ricorre a stralci di Franz Kafka, Martin Buber, di condurre il pubblico alla scoperta di quella spiritualità che è alla base dell’opera di pensatori come Freud, Einstein, Marx, Trotsky e artisti come Marc Chagall, fondamentali con il loro contributo al sapere moderno. Attore teatrale, musicista e scrittore, Salomone “Moni” Ovadia,  è considerato una della maggiori personalità della scena artistica e culturale italiana odierna. Nato a Plovdiv, in Bulgaria, nel 1946, si trasferisce fin dalla tenera età a Milano insieme alla famiglia di origine ebraica-sefardita, ma di fatto impiantata da molti anni in ambiente di cultura yiddish e mitteleuropea. Questa circostanza influenzerà profondamente tutta la sua opera di uomo e di artista, dedito costantemente al recupero e alla rielaborazione del patrimonio artistico, letterario, religioso e musicale degli ebrei dell’Europa orientale. E proprio da quella tradizione culturale trae ispirazione per la sua opera musicale e teatrale, tesa alla valorizzazione della cultura yiddish, che ha contribuito attivamente a far conoscere in Italia e in Europa, attestandosi come uno degli autori più amati e seguiti.
Per effetto dei suoi lunghi tour teatrali, si considera, più un artista, o una sorta di missionario della cultura Yiddish? 
“Non sono un missionario, faccio semplicemente del teatro un grande strumento per comunicare valori, patrimoni e tradizioni. Avrei potuto soltanto scrivere o studiare ma preferisco utilizzare il teatro osservandolo non soltanto come un mezzo di divertimento ed evasione ma come un ausilio per diffondere la cultura Yiddish e con essa i grandi valori della centralità dell’uomo. Ho pensato al teatro come alla culla della comunicazione ed è grazie ad esso che provo ogni sera a celebrare la vita mettendo a punto un connubio, che pur tenendo lontano il lugubre e cervellotico, riesce a trasmettere al pubblico la conoscenza della propria interiorità”.
Quante tracce restano oggi, nell’anima della gente, di quella spiritualità tipica dei grandi pensatori del passato?  
“ Molto poche! Oggi si vive in un mondo avanzato dove il delirio economico dell’uomo lo conduce lontano dalla spiritualità. Tutto è centrato sulla dimensione del consumo ed il senso della vita è stato completamente espropriato. Con la sua ossessione finanziaria, l’uomo ormai è isolato nonché privato della possibilità di accedere a quell’infinito simbolo della libertà estrema. Oggi a morire non è più l’essere umano, ma una specie di androide che vive in una società senza i valori della spiritualità e dove persino il suicidio è digerito con relativa indifferenza”.
Qual è il suo rapporto, alla luce delle sue interiorità religiose e della sua opera di divulgatore delle tradizioni ebree, con la città di San Gennaro?
“Il napoletano- come dice Erri De Luca- sa di essere ospite ovunque ed io ho una casa dovunque sto bene! Napoli è una città di gioie e di dolori ed è triste osservare certe situazioni in una terra che potrebbe essere capitale del mondo. La bellezza, la vitalità e la musicalità di questa città supera ogni fantasia e personalmente, grazie ai miei amici, ogni volta che mi trovo a Napoli scopro dei nuovi posti fantastici come ad esempio l’Albergo dei poveri. Un luogo davvero pazzesco quasi da romanzo di fantascienza capace di sprigionare energia da ogni angolo”.
Cosa pensa che manca nel cuore di tutti noi? 
“Manca sempre più la dimensione dell’interiorità. Non siamo più abituati al pensiero, ai tempi lunghi e non sappiamo coltivare il silenzio così come l’ascolto. Tutto si rivolge ad una materialità senza senso ed il benessere trasformato in idolo è devastante. I poveri non arrivano alla terza settimana del mese ed i ricchi continuano ad accumulare. Ha detto Gherardo Colombo ‘La giustizia non è rappresentata dai giudici, dai tribunali, dalla polizia giudiziaria, dalle carceri, ma dalla fame e sete che ne abbiamo. Se la giustizia non diverrà istinto primario come il nutrirsi e il dissetarsi, non accederemo a una vera giustizia sociale…’ per salvarci, dobbiamo ricercare quel valore che risiede nell’assoluto che è in ognuno di noi”.
Dopo aver assistito al suo spettacolo, il pubblico, cosa porta con sé? 
“Emozioni che raccontano. Emozioni capaci di dimostrare che si può vivere in un altro modo in un’umanità più ricca. Attraverso tre tappe: racconto, canto ed umorismo, il pubblico ritroverà le tracce di un mondo lontano ma al tempo stesso vicino ed il travaglio di un’esistenza poetica come fu quella di Totò e Chaplin che dichiarava di essere ebreo pur non essendolo. Tutti, torneranno a casa con una nuova terapia capace di fare scavare nella propria soffitta delle emozioni, di ritrovare sé stessi e di sollecitare un viaggio alla ricerca del noi nascosto”.  

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