sabato 23 febbraio 2013

Tato Russo al Teatro Mancinelli di Orvieto protagonista con "Il fu Mattia Pascal"

Tato Russo

di Giuseppe Giorgio 
Rimodellando i molteplici temi affrontati nella commedia “Il fu Mattia Pascal” tra cui quello della forma, della famiglia, dell’identità, dell’inettitudine, del gioco d’azzardo e dello spiritismo, Tato Russo, riadattatore, interprete e regista della versione teatrale dell’omonimo romanzo scritto da Pirandello nel 1904, porta tra il pubblico del Teatro Mancinelli di Orvieto quel cosiddetto relativismo orizzontale di cui l’opera sembra esserne simbolo. Ecco allora che analizzando la metamorfosi del Mattia Pascal che dalla forma originaria con una famiglia e un lavoro passa nella forma di Adriano Meis rendendosi poi conto, quando la cosa non gli sta più bene, dell’impossibilità di ritornare allo stato primario, Tato, nei panni dei due personaggi, affronta alla sua maniera anche il tema centrale del testo relativo alla perdita dell'identità che Mattia prima rinnega e poi prova a riafferrare osservando il crollo dell'utopia annullata da quel fatidico “fu”. Ponendosi dinanzi al pubblico come protagonista ed al tempo stesso come narratore della vicenda dando voce fuori campo allo stesso Mattia Pascal che in prima persona ricorda le vicende passate, Tato offre un’apprezzabile lettura dell’opera scritta dal Nobel siciliano, proprio quando la sua vita venne messa a dura prova dal fallimento della miniera di zolfo paterna e dal deficit mentale della moglie. Mattia Pascal è un uomo distrutto dai debiti, dalla moglie, dalla suocera e da altri guai. Stanco della sua esistenza una volta allontanatosi di casa e fatto fortuna al casino di Montecarlo,  approfitta di un equivoco (lo si è creduto morto suicida) ed inizia a viaggiare. A poco a poco, però, ostacoli e guai gli si parano nuovamente dinanzi: e non potendo provare la sua identità è costretto a rimanere un’emarginata vittima degli eventi. Tant’è che alla fine decide di inscenare un altro suicidio, quello della sua seconda personalità, per poi ritornarsene al paesello “Miragno” con il nome di un tempo. L’angoscia e lo sconcerto di chi tocca il vuoto nascosto dietro i nomi, le apparenze, le convenzioni, infondono a questo testo un piglio squisitamente moderno. Caratteristica, alla quale, va aggiunto, l’estro drammaturgico di un autore ed attore come Russo capace di esaltare a modo suo  i  contenuti di un racconto misterioso e vivo. Diretto dallo stesso Tato, “Il fu Mattia Pascal”, giunto nella città umbra, sembra evidenziare il percorso dell’uomo (Pascal) proteso, sotto il peso del dolore, verso la ricerca di se stesso. Pascal si è lasciato vivere fino al giorno in cui, fuggito da casa e dai personaggi del suo mondo, si trova costretto a ricreare un nuovo percorso dove però tragicamente chi lo circonda insieme alle esperienze sono terribilmente simili a quelle da cui è scappato. Artefice dei luoghi e dei personaggi che evoca e lo circondano, Mattia Pascal è vittima e carnefice della fuga dal quotidiano e dalle avversità che si ripresentano ancora insolute se non si risolvono. Nello sdoppiarsi, nel nascondersi si ritorna sempre al punto di partenza, al nodo primario. Questo continuo ruotare del testo, questo incessante apparire e comparire generano nello spettacolo il continuo inseguimento tragicomico, di un ignoto così chiaramente scoperto. Con il resto della compagnia formata dai bravi attori Adriana Ortolani, Renato De Rienzo, Sarah Falanga, Marina Lorenzi, Massimo Sorrentino, Francesco Ruotolo, Francesco Acquaroli, Carmen Pommella, Antonio Rampino, Giulio Fotia e  Francesco Acquaroli, “Il fu Mattia Pascal” versione Russo convince certamente gli spettatori preda delle emozioni di una dimensione, animata dalla ricerca disperata di un’identità che, superando ogni tipo di convenzione, diviene capace di offrire una precisa indicazione contro quel vuoto dell’anima nascosto dietro le false apparenze ed i nomi artefatti. Con le scene di Tony Di Ronza, i costumi di Giusi Giustino e le musiche di Alessio Vlad,  particolare attrattiva desta il disegno luci di Roger La Fontaine. Partendo infatti dal presupposto che la perdita del buio può anche identificarsi nella perdita di tutto ciò che esso comporta in termini di fascino e di conoscenza e considerato che solo al buio si può raggiungere il fondo dell’interiorità e della solitudine umana, vivo interesse suscita la giusta applicazione di un’illuminazione capace di riportare in palcoscenico il pensiero dello stesso Pirandello che importanza fondamentale attribuisce nella sua opera al buio ed alla luce. Sintetizzando la concezione espressa nel capitolo XIII  de “Il fu Mattia Pascal” «come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino che projetta tutt'intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l'ombra nera, l'ombra paurosa che non esisterebbe, se il lanternino non fosse acceso in noi, ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera, fintanto ch'esso si mantiene vivo in noi» con un’intrigante sequenza di chiaroscuri, Tato sembra applicare la filosofica teoria pirandelliana per immortalare sulla scena il concetto di luce come fattore ingannevole in grado di offrire elementi rassicuranti ma spesso fallaci e l’oscurità come un dato di fatto per giungere ad una conoscenza profondamente più interiore.  Ed è anche partendo da questo ulteriore positivo elemento che tutto il lavoro, a grandi ritmi e livelli recitativi, mostra integra l’infinita ricerca umana di un grande scrittore insieme ai pregi di un artista moderno come Tato Russo capace, tra morali, parabole, scontri interiori, maschere e specchi infranti, di lasciare il suo inconfondibile segno.  


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