di Giuseppe Giorgio- E’ partendo dal presupposto che “la vita è un gioco, e questo gioco ha bisogno di essere sorretto dall’illusione, la quale a sua volta deve essere alimentata dalla fede… e che “ogni destino è legato ad altri destini in un gran gioco eterno del quale non ci è dato scorgere se non particolari irrilevanti”, proprio come lo stesso Eduardo De Filippo ebbe modo di affermare attraverso le pagine de “Il Dramma” del 15, marzo 1950, che il figlio Luca ripropone al San Ferdinando, inaugurando la nuova stagione del Teatro Stabile di Napoli, la paterna commedia “La grande magia”. Presentata per la prima volta al Teatro Mercadante nel 1949 e basata sul quel difficile rapporto tra “realtà, vita ed illusione”, la messinscena di chiara ispirazione pirandelliana, anche durante la nuova apparizione “sanferdinandiana”, firmata Luca, conferma la sua volontà - così come scrisse pure Ermanno Contini su Il Messaggero del gennaio del 1950- di proporre “il drammatico contrasto fra realtà oggettiva e fantasia soggettiva”. Il Professor Otto Marvuglia fa “sparire” in un sarcofago, durante uno spettacolo di illusionismo, la moglie di Calogero Di Spelta per consentirle, previo cospicuo pagamento, di appartarsi per quindici minuti con l’amante. Visto però che l’incontro tra i due ha un ben altro risvolto amoroso, fino a prolungarsi per quattro anni, al “mago” sembra non restare altra soluzione, attraverso un ben architettato stratagemma, di far credere al marito, che potrà ritrovare la donna amata solo se aprirà con totale fiducia e nella fedeltà di lei, una scatola, nella quale, sostiene di averla nel frattempo trasferita e rinchiusa. Pentita, alla fine, la donna ritornerà dal marito, confessando l’inganno e l’avvenuto adulterio ma l’uomo, in preda alla follia, si rifiuterà di riconoscerla, preferendo così, pur di non ammettere il tradimento, di restare ancorato all’illusione di una moglie fedele custodita nella inseparabile scatola. Dopo essere stata rappresentata solo in due occasioni: una prima volta dallo stesso Eduardo nei panni dello sventurato e geloso Calogero e poi da Giorgio Strehler, Luca, al San Ferdinando, si ritrova, coraggiosamente tra le mani, “un testo- così come lui stesso ribadisce- dove Eduardo aveva riflettuto sulla società, con i limiti, le ipocrisie, i condizionamenti che imponeva all’individuo, lasciando spazio all’introspezione e all’amara disillusione sulla possibilità di assistere, in Italia, ad un reale cambiamento”. Un Eduardo cinico e disincantato, dunque, quello riproposto nel suo teatro simbolo, un Eduardo che nel riconoscere nell’illusione l’unica fonte di vita, consegna al pubblico i tratti di un’’Italia immutabile vittima di altrettante circostanze immutabili che si lascia precipitare, proprio come il protagonista Calogero Di Spelta, in una disperata dimensione di “autoinganno”. Abbracciando quel senso di Metateatro, o teatro nel teatro, seguendo istintivamente quanto fecero Shakespeare nella seconda scena del terzo atto dell'Amleto ed in epoca più moderna Luigi Pirandello ( lo stesso del Mago Crotone de “I Giganti della Montagna”) con i suoi drammi intrisi di metateatralità intesa come pretesto di riflessione sulle finzioni della realtà sensibile, Eduardo nella sua “Grande Magia” lascia volutamente spazio ad un bisogno di meditazione e di amara disillusione. Lo stesso bisogno che oggi, l’attore e regista Luca De Filippo, difende ed esalta con una messinscena capace di appassionare il pubblico ad una vicenda umana ed al tempo stesso terribilmente idillica. Con lo stesso Luca che con intima umanità veste i panni del “mago e professore” Otto Marvuglia, con Massimo De Matteo, che nel ruolo (appartenuto ad Eduardo) di Calogero Di Spelta, offre una prova intrisa di interiorità ed essenzialità ed ancora, con Nicola Di Pinto nelle vesti di Arturo Recchia e di Gennarino Fucecchia, Carolina Rosi nel ruolo di Zaira, moglie di Otto Marvuglia e gli altri componenti della nutrita compagnia completata egregiamente da Paola Fulciniti, Alessandra D’Ambrosio, Carmen Annibale, Lydia Giordano Antonio D’Avino , Daniele Marino, Gianni Cannavacciuolo Giulia Pica e Giovanni Allocca, lo spettacolo, al suo debutto, sottolinea, ancora una volta, l’umore di un autore che seppe fare della tragedia quotidiana il suo punto di riferimento umano e teatrale. Il personaggio di Calogero Di Spelta lo stesso che Silvio D’Amico nella sua non entusiastica recensione definì “un pover’uomo deluso dalla vita e perciò afferrato alla tavola di salvezza dell’illusione”, insomma, anche alla sua nuova apparizione scenica, sopravvive per professare la convinzione dell’“assurdo” così come a sopravvivere, tra le belle scene ed i costumi di Raimonda Gaetani e le luci di Stefano Stacchini, è un Eduardo che sia pure lontano dal suo tradizionale e colorito repertorio, sembra esprimere al massimo la sua genialità nel segno di un teatro concettuale.
giovedì 10 gennaio 2013
Con La Grande Magia e Luca De Filippo “La vita è un gioco, e questo gioco ha bisogno di essere sorretto dall’illusione"
di Giuseppe Giorgio- E’ partendo dal presupposto che “la vita è un gioco, e questo gioco ha bisogno di essere sorretto dall’illusione, la quale a sua volta deve essere alimentata dalla fede… e che “ogni destino è legato ad altri destini in un gran gioco eterno del quale non ci è dato scorgere se non particolari irrilevanti”, proprio come lo stesso Eduardo De Filippo ebbe modo di affermare attraverso le pagine de “Il Dramma” del 15, marzo 1950, che il figlio Luca ripropone al San Ferdinando, inaugurando la nuova stagione del Teatro Stabile di Napoli, la paterna commedia “La grande magia”. Presentata per la prima volta al Teatro Mercadante nel 1949 e basata sul quel difficile rapporto tra “realtà, vita ed illusione”, la messinscena di chiara ispirazione pirandelliana, anche durante la nuova apparizione “sanferdinandiana”, firmata Luca, conferma la sua volontà - così come scrisse pure Ermanno Contini su Il Messaggero del gennaio del 1950- di proporre “il drammatico contrasto fra realtà oggettiva e fantasia soggettiva”. Il Professor Otto Marvuglia fa “sparire” in un sarcofago, durante uno spettacolo di illusionismo, la moglie di Calogero Di Spelta per consentirle, previo cospicuo pagamento, di appartarsi per quindici minuti con l’amante. Visto però che l’incontro tra i due ha un ben altro risvolto amoroso, fino a prolungarsi per quattro anni, al “mago” sembra non restare altra soluzione, attraverso un ben architettato stratagemma, di far credere al marito, che potrà ritrovare la donna amata solo se aprirà con totale fiducia e nella fedeltà di lei, una scatola, nella quale, sostiene di averla nel frattempo trasferita e rinchiusa. Pentita, alla fine, la donna ritornerà dal marito, confessando l’inganno e l’avvenuto adulterio ma l’uomo, in preda alla follia, si rifiuterà di riconoscerla, preferendo così, pur di non ammettere il tradimento, di restare ancorato all’illusione di una moglie fedele custodita nella inseparabile scatola. Dopo essere stata rappresentata solo in due occasioni: una prima volta dallo stesso Eduardo nei panni dello sventurato e geloso Calogero e poi da Giorgio Strehler, Luca, al San Ferdinando, si ritrova, coraggiosamente tra le mani, “un testo- così come lui stesso ribadisce- dove Eduardo aveva riflettuto sulla società, con i limiti, le ipocrisie, i condizionamenti che imponeva all’individuo, lasciando spazio all’introspezione e all’amara disillusione sulla possibilità di assistere, in Italia, ad un reale cambiamento”. Un Eduardo cinico e disincantato, dunque, quello riproposto nel suo teatro simbolo, un Eduardo che nel riconoscere nell’illusione l’unica fonte di vita, consegna al pubblico i tratti di un’’Italia immutabile vittima di altrettante circostanze immutabili che si lascia precipitare, proprio come il protagonista Calogero Di Spelta, in una disperata dimensione di “autoinganno”. Abbracciando quel senso di Metateatro, o teatro nel teatro, seguendo istintivamente quanto fecero Shakespeare nella seconda scena del terzo atto dell'Amleto ed in epoca più moderna Luigi Pirandello ( lo stesso del Mago Crotone de “I Giganti della Montagna”) con i suoi drammi intrisi di metateatralità intesa come pretesto di riflessione sulle finzioni della realtà sensibile, Eduardo nella sua “Grande Magia” lascia volutamente spazio ad un bisogno di meditazione e di amara disillusione. Lo stesso bisogno che oggi, l’attore e regista Luca De Filippo, difende ed esalta con una messinscena capace di appassionare il pubblico ad una vicenda umana ed al tempo stesso terribilmente idillica. Con lo stesso Luca che con intima umanità veste i panni del “mago e professore” Otto Marvuglia, con Massimo De Matteo, che nel ruolo (appartenuto ad Eduardo) di Calogero Di Spelta, offre una prova intrisa di interiorità ed essenzialità ed ancora, con Nicola Di Pinto nelle vesti di Arturo Recchia e di Gennarino Fucecchia, Carolina Rosi nel ruolo di Zaira, moglie di Otto Marvuglia e gli altri componenti della nutrita compagnia completata egregiamente da Paola Fulciniti, Alessandra D’Ambrosio, Carmen Annibale, Lydia Giordano Antonio D’Avino , Daniele Marino, Gianni Cannavacciuolo Giulia Pica e Giovanni Allocca, lo spettacolo, al suo debutto, sottolinea, ancora una volta, l’umore di un autore che seppe fare della tragedia quotidiana il suo punto di riferimento umano e teatrale. Il personaggio di Calogero Di Spelta lo stesso che Silvio D’Amico nella sua non entusiastica recensione definì “un pover’uomo deluso dalla vita e perciò afferrato alla tavola di salvezza dell’illusione”, insomma, anche alla sua nuova apparizione scenica, sopravvive per professare la convinzione dell’“assurdo” così come a sopravvivere, tra le belle scene ed i costumi di Raimonda Gaetani e le luci di Stefano Stacchini, è un Eduardo che sia pure lontano dal suo tradizionale e colorito repertorio, sembra esprimere al massimo la sua genialità nel segno di un teatro concettuale.
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