giovedì 10 gennaio 2013

Grande prova di Federica Aiello alla Sala Ferrari con “La solitudine si deve fuggire”, il monologo scritto per lei da Manlio Santanelli


Federica Aiello
di Giuseppe Giorgio
La crisalide diventò farfalla così come l’attrice prima donna. Sono senz’altro queste le prime  considerazioni che vengono alla mente su Federica Aiello, protagonista, alla Sala Ferrari, de “La solitudine si deve fuggire”, lo straordinario monologo scritto apposta per lei da Manlio Santanelli. Con gli insegnamenti di Pupella Maggio in quegli stessi occhi che “osservando imparano” e la “nuova drammaturgia” nel cuore, l’artista e la donna Aiello, alla loro “prova del nove” vincono l’ennesima sfida con il teatro d’autore, animando e colorando con infinite sfumature umane, il piccolo gioiello drammaturgico composto  “Ad personam” da uno dei più autorevoli rappresentanti del teatro contemporaneo. Conducendo gli spettatori nei più reconditi meandri della mente di Eufemia di Frattocchie, una matura professoressa di Storia dell’Arte, in vena di “intime” confessioni,  Federica Aiello, diretta da un regista affermato quanto rampante come Fabio Cocifoglia, al debutto nella storicizzata Sala vomerese, riuscendo ad unire insieme le battute recitate con quelle proferite con gli occhi, sembra elargire al pubblico quanto raccolto in lunghi anni di gavetta accanto ad alcuni dei più grandi esponenti del teatro nazionale. Ironica dagli occhi melanconici, esuberante e lieve al tempo stesso, nei panni del personaggio scaturito dalla fervida penna di Santanelli, Federica Aiello, mostra subito di avere una marcia in più. Offrendo un corpo vibrante ed un’anima incandescente all’umanissima professoressa del monologo, la stessa che trovandosi al cospetto della scultura etrusca del suo omonimo “Apollo di Frattocchie” in preda ad un irrefrenabile atto di  “visigotismo” priva lo storico manufatto del suo prezioso attributo virile, l’attrice sembra calarsi in una dimensione dove la pazzia si tinge di umana normalità. Inseguendo quella leggerezza che diventa sinonimo di perfezione, guardando gli spettatori diritto negli occhi abbattendo, a tratti, persino quel muro immaginario detto “quarta parete” che divide il pubblico dall’azione, con il suo monologo, l’avvincente Federica, più che impersonare, semplicemente, la protagonista Eufemia “partorisce”, metaforicamente, un’esaltante e dolce creatura teatrale dagli infiniti risvolti umani e carnali.  Ecco allora che delicata come quegli stessi passi di danza appartenuti alla sua primaria formazione e decisa come tutti quei personaggi di Viviani che sono stati suoi, nei panni della sconcertante storica dell’arte, Federica Aiello si sdoppia, brechtianamente parlando, pur non rinunciando a rimanere essenzialmente sé stessa.  E quando sul finale, spaziando liberamente tra quelle tipiche ed irresistibili trovate drammaturgiche santanelliane, l’irriducibile zitella confessa che il peccaminoso “oggetto” le ha cambiato la vita, liberandola dalla solitudine, il tutto sembra generare una contagiosa emotività collettiva. Quella stessa emotività capace di fondere insieme le reazioni del pubblico con le scelte della “onorata” Eufemia e quella stessa emotività in grado di confermare la maturità di un’attrice come Federica Aiello che alla “prima”, nel raccogliere i meritati applausi, può tenerli tutti per sé.

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