martedì 16 marzo 2010

Da "'O Funneco verde all'eternità". Intervista impossibile con Salvatore Di Giacomo

di Giuseppe Giorgio
Adoperando fantasticamente la stessa magia delle sue poesie, a centocinquant’anni esatti dalla nascita, facciamo un salto nel tempo ritrovandoci nei primi giorni di aprile del 1934 in un appartamento di via San Pasquale a Chiaia dove, Salvatore Di Giacomo, sta consumando gli ultimi giorni della sua vita. Il poeta che ha da poco compiuto 74 anni è assorto in lontane memorie, sulle sue spalle c’è uno scialle di lana e mentre un timido sole primaverile penetrando dal balcone socchiuso gli illumina la testa imbiancata offrendogli gli ultimi tiepidi calori vitali, ci avviciniamo a lui dandogli del Voi per rispettare l’uso dell’epoca voluto dal regime fascista.
Illustrissimo Signor Di Giacomo vorrei permettermi di farVi qualche domanda riguardante la Vostra vita e Napoli, ma non la Vostra amata città bensì una metropoli che, settant’anni dopo, difficilmente riconoscereste. L’altra sera, Vi ricordavo seduto ai tavolini del Gambrinus e poi tra i libri alla Vostra Biblioteca Lucchesi - Palli facendo come quegli ultimi superstiti delle arti che si rifugiano nel ricordo di vecchie canzoni e nei versi di antiche poesie, sognando di ritrovare quella purezza di sentimenti che faceva di ogni napoletano una rarità. Le carte di musica a piazza Carità , i pianini, gli acquafrescai a Santa Lucia, non esistono più. Neanche i posteggiatori esistono più, nessuno li avrebbe ascoltati. Ma del Vostro “Funneco Verde” potreste ancora oggi far ristampare migliaia di copie perché a restare invariati sono i vichi maleodoranti pullulanti di cattiva gente, insieme ai “vasci” ed alle ingiustizie dei governanti. Caro Don Salvatore, credetemi, i Vostri decotti di erbe, il Vostro chinino, a niente sarebbero valsi per lenire tante sofferenze. Ma perdonatemi, non intendevo avvilirvi, non desideravo altro che farVi qualche domanda. Dimentichiamo per un attimo questa amara realtà che più non Vi appartiene e rispondete, Vi prego, a quanto sto per chiederVi.
Si dice che la Piedigrotta vi abbia abbandonato, e vero?
“Si, ho sentito dire che Piedigrotta ha abbandonato il mio nome per darsi ad altri verseggiatori. Macchè è la mia canzone che distanzia Piedigrotta. Già è stato un miracolo per Mario Costa aggiungere le note alle mie poesie Lariulà e Serenata Napulitana, il fatto è, scusate l’immodestia, che i miei versi nascono già completi e sono troppo ricchi per essere musicati e cantati”.
La signora Matilde Serao, vi chiamava “guappetiello” riferendosi alla Vostra attenzione verso l’eleganza, è vero?
“Il bel vestire non mi è mai dispiaciuto ed un giorno questa mia passione mi portò ad una discussione con il D’Annunzio. Ci trovavamo al Gambrinus seduti allo stesso tavolino e lui era elegantissimo con un colletto stretto ed inamidato ed il monocolo incastrato nell’orbita. All’improvviso mi chiese quale fosse il mio sarto ma io gli risposi con aria vaga e distratta…e già ‘io poi… nce ‘o dicevo proprio a isso”.
A proposito di Gabriele D’Annunzio. E’ vero che compose la canzone “A vucchella”, di getto, sul marmo di un tavolino al Gambrinus?
“No, ma quale tavolino! D’Annunzio questa canzone la scrisse nella redazione de Il Mattino per una scommessa fatta con Russo il quale sosteneva che uno come lui non avrebbe mai potuto comporre versi in napoletano”.
Come sono i Vostri rapporti con Ferdinando Russo?
“In quest’ultimo periodo si sono un po’ raffreddati ma rimane sempre un uomo molto leale. Mi hanno riferito di nascosto che ha cacciato via un giovane il quale aveva avuto la cattiva idea, forse per ruffianeria, di parlargli male di me.”
Potete parlarci del Vostro lavoro di direttore alla Biblioteca Lucchesi Palli?
“Restavo spesso in ufficio fino a tardi a lavorare sul materiale rarissimo che Il Conte Febo Lucchesi Palli aveva raccolto con passione formando la biblioteca donata allo Stato anche per la spinta fornita da Benedetto Croce. La sede originariamente si trovava al Museo Nazionale ma poi fu trasferita a Palazzo Reale. Il Conte diceva: ‘la biblioteca è come la mia prima figliuola’ ed io dedicavo ad essa tutte le mie cure più affettuose, compilando, tra l’altro, tutto lo schedario a mano arricchendo le schede con numerosi svolazzi ornamentali.”
Caro Di Giacomo cosa pensate dei napoletani?
“ E’ gente che spera, ma la loro disgrazia è la noncuranza generale. La mia fissazione è che Napoli sia una città disgraziata, in mano ad altra gente senza ingegno, senza cuore e senza iniziativa. Tutto procede irregolarmente, abbandonato in mano ai peggiori.”
Vorreste ricordarci qualche Vostra canzone famosa? Era de maggio, ad esempio?
“Si svolge in un ambiente agreste. Mario Costa, l’autore della musica, quando gli inviai le parole si trovava a Torino e considerato che non riuscii a resistere allo slancio del mio spirito in calce al foglio che conteneva le strofe aggiunsi la frase: Mario quant’è bella! Appena due giorni dopo mi arrivò un rotolo di musica con la firma del Costa ed aggiunta ad essa queste parole: Salvatò e chesta manch’è scema!”
La Vostra passione per il Settecento è ben nota, Cimarosa Pergolesi, sono stati per Voi motivo di studio ed il volumetto “Minuetto Settecento” tanto apprezzato dal Croce ne è una prova evidente.
“Il volumetto fu impresso in sole 300 copie per conto dell’editore Pierro e fu accolto favorevolmente dalla Serao e da Fogazzaro. Il Settecento mi ha sempre affascinato e la mia attitudine al periodo a molti è sembrata più da musicista che da scrittore. Ho sempre amato la lingua popolare di quel periodo che ho descritto nel libro ‘Vierze Nuove’ attraverso la poesia ‘Cimarosa’ ispirata ad un immaginario battibecco avvenuto tra serva e padrone in casa del celebre musicista.”
Parlando della Vostra “Cronaca del teatro San Carlino” cosa potete dirci sulla maschera di Pulcinella?
“La lenta agonia di Pulcinella iniziò con Scarpetta ed il suo Sciosciammocca, ma l’assassinio, perché di assassinio si è trattato fu opera di tutti i napoletani. Nel 1881 fu persino annunziata una commedia che s’intitolava ‘Na mazziata morale fatta da Pulcinella a Sciosciammocca’, ma la ‘mazziata’ l’avrebbero dovuta fare ai napoletani che nel 1884 ridussero il glorioso San Carlino in un cumulo di pietre. Su quelle rovine Napoli piangerà sempre la scomparsa di un monumento napoletano e con esso lo stesso Pulcinella.”Si è fatto tardi, lasciamo il poeta, ora sono l’una e trenta del mattino del 5 aprile del 1934. Salvatore Di Giacomo è in agonia ed il gelo della morte sta per diffondersi con un brivido nella cameretta riempita dalle ultime pulsazioni di un grande cuore. Il professore Molinaro accorre, ricorrendo alle estreme risorse della medicina ma l’ora tragica è arrivata, il destino si compie e Di Giacomo si spegne serenamente circondato dalla moglie Elisa Avigliano, dal fratello Gustavo e dal cognato. La grande figura del poeta scompare dal mondo ma la sua poesia immortale si fonderà poco a poco con tutto ciò che ci circonda: l’aria, il paesaggio, l’amore, il cinguettio degli uccelli, l’odore dei giardini. Di Giacomo rivivrà nel nome della sua poesia felice di avere tramandato ai posteri il cuore di un popolo. Buona notte a Voi caro Poeta, dormite e sognate di rivivere in eterno nel Vostro mondo. Passeggiate ancora per le tavernelle di Antignano, lasciate che la Vostra frittata si raffreddi nel piatto. Sdraiatevi al tepore del Vostro ultimo sole primaverile …dormite… sia dolce la Vostra lunga notte, quella che ormai vi separa dagli acciacchi di una città che un secolo e mezzo dopo la Vostra nascita, tuttavia, Vi ricorda ed apprezza ancora
* Riproduzione vietata anche parziale.
* Copyright. Riproduzione riservata

Nessun commento: